Che cos’è per noi l’autismo, che cosa è stata la diagnosi?
- ilmondodidiegosaur
- 12 mar
- Tempo di lettura: 4 min
di Luna Lovegood.
Ho letto con attenzione la scoperta di Sonia dell’autismo di Diego e mi sono immedesimata nelle sue parole, ho sofferto con lei e ho gioito con lei dei risultati ottenuti con le terapie.
Poi mi sono chiesta che cosa abbiamo vissuto noi (io e la mia famiglia) di diverso e qui voglio provare a rispondere a questa domanda, partendo dal fondo: la diagnosi per noi è stata una liberazione, l’abbiamo aspettata e voluta e la conferma è stata accolta con grandi festeggiamenti.

Ho 3 figli. Ognuno di loro ha avuto un diverso percorso di crescita, ma le tappe fondamentali sono state tutte raggiunte e superate, con tempi diversi ma senza ‘stranezze’. Sono andati tutti e tre al nido e poi alla scuola dell’infanzia, dove si sono divertiti e trovati bene. Con delle fatiche, come è inevitabile, ma niente di ‘strano’.
Ho avuto i primi dubbi sull’autismo osservando il mio secondo figlio, che chiamerò Figlio2 perché preferisco che il suo nome (e il mio) restino sconosciuti. Sarà lui, saranno loro, a decidere quanto di sé vorranno condividere con il mondo.
All’epoca, comunque, sapevo ben poco dell’autismo, non avevo idea che fosse uno spettro né che potessero esserci tante e tali differenze tra un autismo e l’altro, e la psicologa a cui avevo chiesto lumi aveva recisamente scartato l’ipotesi. Quindi ho lasciato cadere, pensando che forse ero io che vendevo ‘stranezze’ e pattern particolari dove in realtà c’era solo un bambino che aveva bisogno di tempi e modalità di gestione diversi.
Poi Figlio3 ha cominciato la scuola primaria. E lì è cominciato il calvario: crisi di rabbia, incapacità di stare in classe, note sul diario un giorno sì e l’altro pure, autostima sotto le scarpe e così via.
Un giorno un’amica - una di quelle persone che non hanno paura di dire quello che pensano e a cui non dirò mai abbastanza grazie - mi ha messo una pulce nell’orecchio: e se fosse Asperger? Il termine non si usa più, lo so, ma mi ha permesso di capire di che cosa stessimo parlando e di approfondire quelli che vengono ancora definiti ‘sintomi’ di una cosa che malattia non è.

Abbiamo quindi preso contatto con una NPI specializzata e aspettato per mesi perché la sua lista d’attesa era molto lunga. Mesi in cui, nonostante avessimo immediatamente condiviso i nostri sospetti con la scuola, Figlio3 ha continuato a vivere il suo personale calvario perché nessuno dei suoi insegnanti ha voluto vederlo. Non ci è mai stato detto esplicitamente, ma la loro convinzione era che noi genitori non lo avessimo educato e che stessimo cercando un alibi.
In ogni caso, la lunga attesa è valsa ogni minuto: abbiamo incontrato una professionista impeccabile, molto attenta e competente, che ha confermato che Figlio3 è autistico.
Nel frattempo io - che lo sono a mia volta ma ancora non lo sapevo - ho letto, studiato, approfondito tutto quello che ho potuto sul tema e ho cominciato a ‘vedere’. Ho visto i miei figli, finalmente, per quello che sono. Autistici, Asperger, neurodivergenti… unici e speciali ma mai, per nessun motivo, ‘sbagliati’.
Dopo la diagnosi di Figlio3, che ci ha permesso di avere dalla scuola quel supporto e quel riconoscimento che non avevamo e che lo facevano sentire sbagliato e sofferente, abbiamo deciso di proseguire il percorso iniziato e di far valutare anche Figlio2. Autistico anche lui. E anche plusdotato (mentre Figlio3 è al limite della plusdotazione ma non completamente ‘dentro’).
Figlia1 alle soglie dell’adolescenza ha chiesto spontaneamente di fare anche lei la valutazione, perché sapere è meglio che non sapere. E anche lei… doppia eccezionalità (ma a mio avviso potrebbe essere tripla con un bell’ADHD da aggiungere alla lista).
Durante il lungo periodo delle valutazioni io ho continuato a informarmi, a leggere libri e a farmi domande. Ho avuto contatti con professionisti preparatissimi e disponibili al dialogo, ad ascoltare le mie domande e a fornire ulteriori strumenti di comprensione, ho partecipato a un parent training in cui si è parlato tanto anche di adolescenti e di giovani adulti, ed è così che ho scoperto (poi confermato dalla neuropsichiatra) che anche io ero ‘una di noi’. Rientravo così bene nelle descrizioni proposte che se fossi capitata nella saletta del parent training senza sapere dove fossi, avrei pensato che si stesse raccontando la storia della mia vita.
E quindi, tornando alla domanda iniziale: perché per noi è stata una liberazione? Perché sentirsi diversi, pensare di essere sbagliati, non capire mai del tutto il mondo che ci circonda, dire o fare sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato – e poi rimuginarci sopra per giorni, settimane… - è una fatica immane. Perché pensare che gli altri alle feste si divertono e io le evito come la peste, perché un pranzo tra colleghi è sempre stato per me una montagna da scalare, perché la scuola per i miei figli era una fatica enorme, perché sentirsi perennemente fuori posto, fuori contesto, ‘fuori’ non fa bene alla salute mentale.
Le fatiche restano tutte, ma stiamo imparando a gestirle, stiamo capendo come ricaricarci, a cosa possiamo dire di no, quando pensiamo che sia giusto dare spiegazioni e quando no, come affrontare il tema con familiari e amici.

La parola autismo a noi non ha mai fatto paura, ma in questo nostro percorso siamo stati immensamente fortunati perché abbiamo potuto guardarci, capirci, notare le nostre somiglianze. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare professionisti che ci hanno accompagnato nel percorso di consapevolezza con una grande grazia e usando le parole giuste.
In famiglia siamo tutti grandi fan di Harry Potter e una persona che ci ha supportato molto e a lungo nel nostro percorso un giorno ci ha detto: è come essere maghi in un mondo di babbani.
Ecco, per noi è così. Siamo un po’ magici a casa: tra di noi ci capiamo al volo. Quando siamo fuori, nel mondo, dobbiamo ricordarci che gli altri, per lo più, sono babbani, ma non è colpa loro: sono nati senza poteri magici! Con un po’ di sforzo un linguaggio comune si trova. Sarebbe bello però togliere lo stigma che la parola ‘autismo’ si porta dietro, sarebbe bello parlarne di più e meglio, sarebbe bello che cercare un linguaggio comune riguardasse sia ‘noi’ sia ‘gli altri’ e non solo ‘noi’. Sarebbe bello che l’autismo fosse considerato per quello che è: un diverso modo di funzionare, non una malattia, non una patologia.
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